Giandujotto scettico

La misteriosa isola di Thule, a Torino

Giandujotto scettico n° 177, di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo

Dal giugno 2024, a Torino è di nuovo possibile ammirare il mosaico dell’antica chiesa del Salvatore, restaurato di recente. Scoperta all’inizio del Ventesimo secolo, questa opera d’arte risalente all’XI-XII secolo è stata a lungo esposta dietro a un vetro. Oggi si può tornare a scoprirla in tutto il suo splendore, presso la sede del Museo Diocesano di Torino. Ma l’invito a guardarla con attenzione non è rivolto soltanto ai cultori di arte medievale. Al visitatore appassionato di leggende e del fantastico, le tessere bianche e nere riveleranno il nome di una terra che un tempo era ritenuta essere ai confini del mondo: la misteriosa isola di Tile – più nota come Thule.

Quella stessa che per primo cita Pitea di Marsiglia intorno al 325 a.C. scrivendone in Sull’Oceano, un’opera andata quasi del tutto persa  – e poi divenuta nei secoli area principe di leggende, di sapienze ancestrali e sede di civiltà perdute, croce e delizia degli esoteristi di tutto il mondo. Ve ne raccontiamo la storia.

Un mosaico geografico

Nei primi anni del Ventesimo secolo, proprio nel cuore di Torino, e in particolare fra Palazzo Reale, il Duomo e via XX Settembre, che corre lungo il cardo dell’Augusta Taurinorum romana, furono effettuati importanti scavi archeologici volti a ricostruire qualcosa della Torino d’età imperiale. Quel che accadde lo raccontò poco tempo dopo, fra i primi, il geografo Piero Gribaudi, nativo di Cambiano, cittadina prossima a Torino, in un suo opuscolo pubblicato due anni dopo (Di un mosaico cosmografico medioevale scoperto a Torino, comparso in origine sul Bollettino della Società Geografica Italiana, serie 4, vol. 12, n. 5, 1° maggio 1911, pp. 619-31). È ancora utilissimo per capire il senso di questo manufatto preziosissimo.  

Fra il teatro romano, che stava venendo alla luce, e il Duomo nel marzo 1909 furono casualmente scoperti, a poca profondità, le tessere di alcuni antichi mosaici. Nell’Alto medioevo in quell’area sorgevano ben tre chiese: quella di San Giovanni Battista, quella di Santa Maria e quella del Santo Salvatore. Intorno al 1490 i tre luoghi di culto cominciarono a essere demoliti per far spazio alla costruzione del nuovo Duomo, quello che ancora oggi si può ammirare. Il mosaico che c’interessa era parte della collegiata del Santo Salvatore, su parte della quale sorse poi l’edificio imponente del Duomo.

Solo una porzione del mosaico è sopravvissuta, ma una ricostruzione complessiva del suo aspetto è possibile. Era composto di tessere di marmo, bianche e nere, inframezzate da tessere di terracotta. Al centro, una rappresentazione della dea Fortuna, mostrata però come una donna che imprime il moto a una ruota – e non come una dea portata da una ruota alata, come nell’antichità classica – lungo la quale figure che indicano i vari regni del mondo salgono o precipitano, a seconda delle umane sorti. Ai lati, grandi maschere demoniache cercano di addentare la Fortuna, circondata da cerchi in cui si vedono animali reali e fantastici, che rappresentano i vari luoghi della Terra (le gru per l’Egitto, i grifoni per la Scizia, ecc.) Ma ecco la rappresentazione che ci interessa di più: un grande cerchio esterno. I venti sono alle quattro estremità, e, lungo la circonferenza, sta l’Oceano, a onde bianche e nere. 

Qui, nell’Oceano, l’indicazione di alcune isole, con la relativa legenda. Riusciamo a vedere ancora quelle ubicate più a nord, dove più a nord, allora e per molto tempo, nessuno poteva immaginare di potersi spingere – anche perché il centro del mondo era il più ospitale Mediterraneo. 

Ecco dunque la BRITANIA INSULA INTERFUSA MARI, l’isola della Gran Bretagna, circondata dal mare. Ecco le ORCADES INSULE, le Orcadi, ubicate a nord della Scozia, e poi la SCOCIA INSULA P(ro)XIMA BRITANIE UBl NULLA ANGUIS, ossia la “Scozia”, isola vicina alla Gran Bretagna, dove non ci sono i serpenti – forse una confusione con l’Irlanda. E poi, quella che ci tocca da vicino, più a nord di tutti: TILE ULTIMA INSULA, cioè Thule, isola che è ultima non solo per la distanza, ma perché, più in là, non c’è nulla. Finisce il mondo, e, con esso, tutto quello che si può immaginare.

Oltre che per dare piacere estetico, il mosaico aveva anche una chiara funzione geografica: è plausibile che nelle parti andate perse ci fossero molte altre indicazioni di questa o di quella terra, a parte quelle che abbiamo visto sopra (ad esempio, le isole dell’estremo Sud). Voleva essere utile, oltre che dilettevole, e particolarmente erudito nell’accogliere nozioni su terre poco note come la misteriosa Tile. Le conoscenze geografiche rappresentate su quel pavimento (Tile compresa) provenivano da una delle figure più eminenti dell’Alto Medioevo, cioè da Isidoro di Siviglia, e in particolare dai libri XIII e XIV delle sue Etymologiae sive origines, composto agli inizi del VII sec., e dal De natura rerum, una specie di cosmologia e di tentativo di render conto di parecchi fenomeni naturali che, però, menziona pure un buon numero di località e zone terrestri e marittime.

Con orientamenti scientifici attuali, la storica dell’arte Lucy E. G. Donkin ha esaminato in modo dettagliato la storia e le caratteristiche del mosaico di Torino, e al riguardo ha pubblicato un ampio lavoro scientifico nel volume del 2008 Cartography in Antiquity and the Middle Ages (Brill, pp. 189-218). Nel suo lavoro, Donkin esamina al meglio anche un altro esempio di cartografia in forma di mosaico presente in Piemonte: quella del presbiterio del Duomo di Asti, che mostra la mappa dei fiumi del Paradiso.

Le collocazioni antiche di Thule sono state innumerevoli. Qui basti ricordare quella tentata da Strabone, nella Geografia, che intorno al 30 d.C. la pone in un’area ghiacciata del mare, a sei giorni di navigazione dalla Britannia; qualche decennio dopo, Pomponio Mela la sposta da tutt’altra parte, a nord della Scizia, quindi, forse, nel Caspio, o nel Mar Nero; Paolo Orosio, uno degli ultimi epigoni della romanità, ma ormai pienamente cristiano (ed ecclesiastico), ai primi del quinto secolo la piazza a ovest di Britannia e Irlanda – sembra pensasse all’Islanda; Procopio, prima della metà del VI sec., ne parla come di una grande isola abitata da venticinque tribù diverse – e le indicazioni che fornisce fanno credere che avesse informazioni su qualche parte della Scandinavia. E così via, ad libitum. Tutti, però, in un modo o nell’altro, pensavano che Tile, Thule o quel che era, fosse un luogo geografico fisico, per quanto remoto e strano. Lo stesso doveva essere ancora per chi creò il mosaico di Torino. Solo più tardi, Thule diventò uno spazio dell’immaginario. Ma questo non ne decretò per niente la fine. Anzi, le assicurò una vita nuova. 

Thule e il mondo moderno

La nostra “Thule torinese” si colloca intorno all’Undicesimo o Dodicesimo secolo, dunque al culmine del Medioevo. La Thule che molti conoscono, però, non è quella antica, quella comparsa con Pitea di Marsiglia. La storia moderna di Thule, quella dell’immaginario, prende l’avvio a fine Seicento, nell’ambito del dibattito sulla storicità di Atlantide. Per capire cosa accadde sono fondamentali due figure: la  prima, quella di Olaus Rudbeck, che si convince che Atlantide coincideva in parte con la sua Svezia; la seconda, quella del francese Jean-Sylvain Bailly, che negli anni ‘70 del XVIII secolo cercherà di convincere un filosofo del calibro di Voltaire che Atlantide era ancora più a nord, verso la Groenlandia e le isole Svalbard. 

Dunque, in quel periodo Atlantide viene spostata a nord, molto più a nord rispetto alle tradizionali collocazioni del passato, come quelle del Mediterraneo o dell’Atlantico centrale. 

Da qui in poi comincia a prender forma la rinascita moderna di Thule, una lunga storia che si dipana dall’ultima parte del Settecento sino a tutto il Novecento. Qui diamo soltanto qualche idea su questa sequela, in modo da intuire come mai questo luogo mitico rappresentato sul pavimento scomparso di una chiesa piemontese possa esser tornato in auge. 

Non è casuale che Thule affascini due gruppi di scrittori dei secoli XVIII e XIX: i romantici tedeschi, e il massimo esponente del fantastico americano. La serie si apre con un botto: la poesia di Goethe Der König in Thule (“Il re di Thule”, 1774) narra di un re del regno del nord, morente nel suo castello sul mare, che chiude la sua vita gettando nel mare in tempesta sottostante il calice d’oro da cui aveva a lungo bevuto. Il testo goethiano risuonò a lungo nel secolo successivo, e non soltanto in Germania. 

Diciamo risuonò, perché la fortuna del Re di Thule fu prima di tutto musicale. Franz Schubert, nel 1816, e, più tardi, Liszt e Schumann, per dire dei più illustri, lo utilizzarono. Ma così, siamo pur sempre nel mondo germanofono. 

Thule però era inarrestabile, e superò ben presto l’area centroeuropea. Edgar Allan Poe, il padre della letteratura moderna del mistero e del fantastico con i suoi racconti brevi e la sua poesia, nel 1844 rispose in modo egregio dall’altra parte dell’Atlantico alla thulemania. Dream-land, “Terra di sogno”, una delle poesie più note di Poe, per diversi critici ha il colore dell’esperienza vissuta. Uno strano vissuto fra vita e morte, nella quale un viaggiatore – forse lo stesso Poe che dorme – raggiunge una terra misteriosa presso la quale vuole rimanere. La prima stanza così recita: 

Per una via oscura e solitaria,
Infestata solo da angeli malvagi,
Ove uno Spettro, il cui nome è NOTTE,
Sopra un nero trono regna eretto
Da poco soltanto ho raggiunto queste terre
Da quest’Ultima e fioca Thule
Da un selvaggio strano luogo che giace, sublime,
Fuori dello SPAZIO, fuori del TEMPO.
[Traduzione degli autori]

Questa però è pur sempre letteratura. La nascita della Thule esoterica fu dovuta alla lettura razzista che alcuni scrittori tedeschi ed austriaci diedero delle idee sulla presunta proto-storia del mondo e dei suoi gruppi etnici partorite da una delle personalità più importanti dell’occultismo, Helena Blavatsky

La Thule degli ariani

Se oggi ci sono nel mondo le grandi scimmie antropoidi, scriveva Blavatsky negli anni ‘80 dell’Ottocento ne La dottrina segreta, è perché quelli della terza razza (che ha preceduto la nostra…), cioè i Lemuriani, si sono uniti a degli animali mostruosi. La mescolanza razziale è il simbolo più netto della decadenza e dell’avvicendarsi delle civiltà.

Uno degli occultisti austriaci il cui brodo di coltura fu prossimo al nazismo, Jörg Lanz von Liebenfals (1874-1954) ne approfittò per leggere tutto in modo più radicale: gli ariani, che abitavano il Giardino dell’Eden situato a nord del mondo, erano stati pervertiti dai non-ariani, mescolandosi sessualmente con loro. Da qui le “scimmie” che minacciano di seppellire la civiltà. Ora a tutto questo, occorreva rimediare, anche con misure politiche. 

Intorno al 1910 queste idee esoteriche cominciarono a esser promosse da un altro austriaco, Guido von List (1848-1919), e il risultato fu la formazione in varie località tedesche di gruppi semi-segreti che nel loro insieme si facevano chiamare Germanenorden. Nel 1914, per Pentecoste, molti esponenti dei gruppi del Germanenorden si riunirono nel paesino di Thale, fra i monti Harz, uno degli spazi mitici del Romanticismo tedesco e oggi sede frequente di attività di gruppi neopagani. A quel punto, per quanto ne sappiamo, l’identificazione fra Thule, “Atlantide del nord” e luogo di origine degli ariani era ormai completa. 

Almeno dal 1916 il bollettino del Germanenorden iniziò a inalberare svastiche con bracci ricurvi. Uno dei lettori del notiziario, l’occultista Rudolf von Sebottendorff (1875-1945), mentre nell’estate del 1918 la Germania si avviava alla catastrofica sconfitta nella Prima Guerra Mondiale, a Monaco in un certo senso rifondò il Germanenorden, dando vita alla Thule Gesellschaft, la “Società Thule”. Quello è l’ambiente nel quale pochi mesi dopo comparirà il primo nucleo che poi diventerà, nel 1920, il partito nazista. 

Nel 1933, il filologo nazista tedesco-olandese Herman Wirth (1885-1981), portatore di un gran numero di idee occultistiche e pseudostoriche, ritirò fuori una storia che sembrava sepolta. Quello del manoscritto Oera Linda, un falso creato nella seconda metà degli anni ‘60 dell’Ottocento per prendersi gioco di teologi protestanti conservatori e di nazionalisti tedeschi. Ne avevamo parlato qui: il falso testo racconta un’intera epopea, lunga migliaia di anni, che metteva al centro della civiltà la regione olandese della Frisia e – fra l’altro – inventava un’Atlantide con sede nel mare del Nord.

Herman Wirth identificò i resti di quell’Atlantide nell’isolotto di Helgoland, al largo delle coste tedesche, e da lì fu facile legarlo alle idee su Thule come sede originaria degli ariani. Thule era la vera Atlantide del nord, e i veri atlantidei erano gli ariani che l’abitavano. 

Dischi volanti su Thule

Il resto lo fece, dopo la Seconda guerra mondiale, la nascita di una serie di leggende su una sopravvivenza “segreta” di gruppi di nazisti ritiratisi in basi sotterranee dell’estremo nord – nuova Thule moderna, supertecnologica e pronta, prima o dopo, a riemergere, restaurando il potere della svastica sul mondo. Nel 1946 le fantasie sulla presenza di reparti di spietate SS nascoste in Groenlandia raggiunsero anche noi: ecco la copertina del settimanale torinese L’Illustrazione d’Italia del 25 novembre di quell’anno. 

Dopo la nascita del mito dei dischi volanti (1947), in quell’ambito prese forma anche un sotto-mito specialissimo, quello dei dischi volanti nazisti, secondo il quale i presunti ordigni che solcavano il cielo erano velivoli avanzatissimi che partivano da basi segrete in cui si erano rifugiati i seguaci di Hitler. Nell’aprile del 1950, proprio dall’Italia partì la variante “artica” di questo sotto-mito: un ex-militare tedesco di passaggio a Perugia, prima di andarsene in Australia, raccontò a un giornalista locale di tenere per certo che i “dischi” provenivano da aree segrete del Circolo polare. Lui sapeva tutto, al riguardo.

Se oggi in rete troviamo con facilità schemi finto-vintage, o retrofuturisti, di dischi volanti con la croce uncinata che vengono legati a Thule e a una sopravvivenza occulta del nazismo nell’estremo nord del mondo, lo dobbiamo a questa lunga storia, che peraltro in questo articolo abbiamo soltanto schizzato.

La cultura pop contemporanea ha banalizzato Thule, come del resto ha fatto un po’ con tutto. Dalle marche di prodotti di ogni tipo per la vita all’aperto, ai gruppi di musica neo-pagana, agli impieghi più orientati all’universo della destra radicale, tutto può essere thuleano. Thale, la località dei monti Harz di cui avevamo parlato, quella che nel 1914 vide la definitiva trasformazione di Thule in un luogo di culto per l’occultismo di destra, oggi è un luogo di ritrovo per persone che convidono idee new age, o neo-pagane, o ecologiche. 

Nel 1981, nel Nome della rosa, che qualcuno ha interpretato come una presentazione geniale di idee di tipo postmoderno piazzate in pieno Medioevo, Umberto Eco non trascura nemmeno di ricordare Thule. Nel trentasettesimo capitolo, l’io narrante della storia, Adso da Melk, nella biblioteca del convento benedettino in cui si svolge buona parte della vicenda apre un volume riccamente miniato. Lo sfoglia: per lo stile meraviglioso, crede provenga da un posto speciale, un posto in cui quasi nessuno è mai stato: i monasteri dell’ultima Thule

Eco, dunque, ricostruisce una Thule che non è quella più antica, quella di Pitea di Marsiglia, ma una Thule cristiana. Anche la Thule dell’antico mosaico del duomo di Torino era stata inserita senza troppe preoccupazioni in un planisfero cristiano. Ai confini del mondo, ma pur sempre in un universo accettabile dalle persone colte all’inizio del secondo Millennio.

Ma, in fondo, quella di Eco è una totale finzione: la Thule cristiana, nemmeno quella del duomo di Torino, è mai esistita nella geografia. Quella che ha prodotto i suoi effetti reali nel mondo, invece, è quella dell’esoterismo, dell’occultismo e delle idee della destra nazionalista europea, fra il Settecento e il Novecento. Se c’è una Thule alla quale guardare con attenzione e con circospezione, si tratta di quella.

Immagine in evidenza: L’isola di Thule, fra le isole Orcadi e le Faroe. Dettaglio dalla “Carta Marina” (1539)  di Olaus Magnus (1490-1557). Foto di Krevegourez, rilasciata in licenza CC BY-SA 4.0 , via Wikimedia.