La storia di Giancarlo Giudice, il mostro di Torino che odiava le donne
La cronaca odierna ormai usa frequentemente il termine “femminicidio”, anche se è una definizione non del tutto univoca. Di solito, le definizioni che riguardano gli omicidi si riferiscono al rapporto tra vittima e carnefice, indipendentemente dal movente del delitto (uxoricidio, matricidio) oppure a una categoria a cui appartiene la vittima, ad esempio l’età, senza esplicitare il rapporto con l’assassino (infanticidio, neonaticidio).
Femminicidio è un’eccezione per molti versi, in quanto il nome richiama la categoria femminile, anche se in realtà non è l’omicidio di una donna per qualsiasi movente. Si riferisce invece a una donna che in qualche modo si sottrae a una forma di controllo e il cui assassino è un uomo che ritiene di avere il diritto di decidere di eliminarla. Il “femminicida” agisce per odio viscerale, mosso da un senso distorto di vendetta e mette quindi in atto la forma estrema e totale di possesso, l’omicidio.
I serial killer hanno frequentemente come obiettivo le donne, da loro odiate per le più disparate ragioni, ritenute colpevoli delle sofferenze e dei fallimenti dei seriali stessi. Ad esempio, negli Stati Uniti, il 75,4 % delle vittime di omicidi in serie sono donne. [1]
Molto spesso, a pagare il prezzo di questo odio sono le prostitute, che tanti seriali hanno usato come carne da macello, sfogo sicuro di desideri abietti e violenti, poiché difficilmente vengono ricercate in tempi brevi in caso di scomparsa, sono vittime con uno stigma sociale pesante e a volte non hanno una famiglia premurosa alle spalle. In questi casi si può parlare di vittimizzazione multipla: quando ci si riferisce a persone che subiscono reati come abusi sessuali, fisici e psicologici in diversi momenti e ambiti della vita. Alcuni criminologi parlano di vittime predestinate. [2]
Questi fattori hanno consentito a seriali come Gary Ridgway o Gianfranco Stevanin di agire indisturbati per anni. [2] Un esempio di questo tipo di criminale è Giancarlo Giudice, un seriale italiano che ha ucciso almeno nove donne tra il 1983 e il 1986, oltre ad aver commesso diverse aggressioni e almeno due tentati omicidi. Al giorno d’oggi probabilmente verrebbe chiamato un femminicida seriale.
Un bambino solo
Giudice nasce a Torino l’11 marzo del 1952 ed è figlio unico. La sua famiglia non è particolarmente benestante, le entrate economiche sono poche e incostanti; i genitori presentano molti elementi disfunzionali. L’infanzia di Giancarlo è solitaria, priva di amore stabile e di certezze, segnata dai gravi problemi di salute della madre, malata di cuore. Il padre, operaio alla Fiat e reduce di guerra, è un uomo anaffettivo e assente, che non si cura del benessere del figlio. Giancarlo finisce a malapena le elementari, anche perché quando è a casa svolge il gravoso compito di assistere la madre malata. La donna muore quando il giovane ha solo tredici anni, mentre era stato mandato dal padre a vivere in un collegio in provincia di Asti, luogo dove viene maltrattato e sottoposto a punizioni che sono veri e propri abusi. Giancarlo si sente responsabile della morte della madre, ritiene di non aver fatto abbastanza:
“Credo proprio sia morta per colpa mia, per i dispiaceri che le ho dato da bambino, ero un discolo”.
Il trauma lo porta a un tentativo di suicidio con delle pillole di sonnifero. Sopravvive solo perché viene scoperto e sottoposto a una tempestiva lavanda gastrica. A seguito di questo episodio, non segue alcun supporto psicologico.
Nonostante la tragedia che ha colpito la famiglia Giudice, il disinteresse del padre a quel punto diventa totale: sprofonda nell’alcolismo e inizia a frequentare una donna più giovane, che in seguito sposa. Giancarlo viene riaccolto in casa, ma i rapporti con il padre e la matrigna sono tesi e freddi, i conflitti sono frequenti. Pare che il giovane abbia messo in atto tentativi di stupro e aggressione contro la matrigna. Quando i litigi diventano insostenibili, il padre decide di trasferirsi in Calabria insieme alla moglie, abbandonando il figlio a sé stesso e ai suoi demoni. Poco dopo, l’uomo muore di cirrosi, conseguenza dei lunghi anni di dipendenza e abuso di alcool, a breve distanza dalla seconda moglie. A quel punto, Giancarlo è solo al mondo.
L’odio e la rabbia
L’uomo lavora prevalentemente come barman, camionista oppure manovale, senza mai mantenere per lungo tempo un impiego. Il camionista è il lavoro che preferisce, in quanto gli rende più semplice frequentare prostitute. Anche le sue relazioni sono precarie e incostanti; non coltiva amicizie o interessi al di fuori della pornografia e delle armi da taglio, di cui ha una ricca collezione. Le sole persone che frequenta sono le prostitute, donne spesso molto più anziane di lui, con cui ha un rapporto anomalo: ha bisogno di loro, le ricerca, ma le odia profondamente allo stesso tempo.
Vive nel ricordo della madre, che rappresenta una sorta di angelo, un essere puro, al contrario della sua matrigna, che secondo lui le ha portato via il padre. Spesso si abbandona all’eccesso di alcol e di droghe, come LSD e cocaina. Sente il bisogno di un distacco dalla realtà solitaria, misera e triste che conduce. Nella sua vita sbandata troviamo anche legami con il mondo della delinquenza: commette piccoli furti, aggressioni, tentati omicidi e “atti di libidine violenta” ai danni delle prostitute. [3]
Lo stupro non ha mai avuto molta rilevanza dal punto di vista penale in Italia, le pene sono estremamente lievi se rapportate alla gravità del reato: le condanne vanno dai cinque ai dieci anni di detenzione (articolo 609-bis del codice penale) arrivando a un massimo di quattordici in caso la vittima abbia meno di dieci anni di età. Tale reato è considerato contro “la libertà personale” e non come una forma di tortura fisica e psicologica, con conseguenze indelebili. In altri paesi, ad esempio negli Stati Uniti, troviamo pene assai più importanti.
Negli anni ’80 è ancora valida la definizione di stupro come “reato contro la morale”, modificata solo nel 1996. Quando le vittime si prostituiscono, la gravità percepita scema ulteriormente sia da parte dell’opinione pubblica che in sede di giudizio. [4] Giancarlo passa infatti brevi periodi in carcere. Dopo due tentati omicidi ai danni di prostitute, viene arrestato nuovamente e sottoposto alla sua prima perizia psichiatrica, che riscontra un vizio parziale di mente. In realtà, al momento di questo arresto, Giudice ha già ucciso Francesca Pecoraro e Annunziata Pafundo, ma non è ancora stato collegato ai delitti. Per uno dei due tentati omicidi, quello ai danni di Ludia Geraci, viene condannato ad appena sei mesi di prigione.
Nessuno, tra le figure che lo prendono in carico durante la detenzione, comprende quanto sia pericoloso e aggressivo, quanta rabbia stia covando o di cosa sia capace. I suoi reati non sono visti come una spia di un problema enorme, di una minaccia incombente.
“In fondo sono degli animali, sono donne”
Il primo delitto di Giudice risale al 28 dicembre 1983. Francesca Pecoraro, quarantenne di origine palermitana, accetta di salire in auto con Giancarlo per un rapporto a pagamento, da consumare a casa di lui. Durante l’atto sessuale, la donna viene strangolata con una calza di nylon. Giudice ruba un’auto e vi nasconde il corpo di Francesca, a cui in seguito dà fuoco. L’auto col corpo carbonizzato al suo interno viene ritrovata il giorno dopo, alla periferia di Torino.
Questo primo, atroce delitto dà il via a una lunga scia di sangue. Le donne uccise da Giancarlo sono in tutto nove, tra i 37 e i 67 anni di età. I metodi da lui usati sono diversi, il che complica non poco le indagini, poiché è più difficile collegare i delitti. Inoltre, non sono rari gli omicidi nel mondo del racket della prostituzione, specialmente quando le ragazze cercano di sfuggire al controllo dei loro sfruttatori. Giudice prova piacere prevalentemente nello strangolamento, come ha fatto con Francesca, mentre con altre vittime preferisce ricorrere ai suoi coltelli o a un’arma da fuoco. Per quanto cambino le modalità e i luoghi di esecuzione dei crimini, tutti i corpi vengono trattati con disprezzo, come fossero spazzatura: Giudice getta nelle acque del Po Giovanna Bichi e Addolorata Benvenuto, mentre finiscono in un canale Maria Corda e Laura Belmonte. Annunziata Pafundo viene strozzata e abbandonata in strada. Clelia Mollo viene strangolata nella sua abitazione.
Maria Galfrè e Maria Rosa Paoli vengono uccise a colpi di pistola. Galfrè viene abbandonata in un campo, così come Maria Rosa, l’ultima vittima nota di Giudice, uccisa il 28 giugno 1986.
L’assassino non compie atti di necrofilia, ma spesso sottrae alcuni degli effetti personali delle vittime o li brucia: atti di deumanizzazione e disprezzo totali, volti a cancellare completamente le persone uccise, più che a coprire le tracce dei delitti.
Nei tre anni in cui Giudice commette i suoi omicidi, non cessa di compiere brutali aggressioni: nel 1984, ad esempio, sequestra due donne in casa sua, ammanettandole e denudandole sotto minaccia di una pistola. Scatta loro delle foto, le violenta brutalmente, ma risparmia loro la vita. In seguito, affermerà di essere rimasto impietosito dal racconto di una delle due vittime, che gli ha parlato dei suoi figli e di quanto avessero bisogno di lei. Forse Giudice si è identificato con quei bambini, che avrebbero perduto la madre precocemente. [5]
La confessione, le contraddizioni
L’arresto di Giudice avviene per caso, quando viene sorpreso da una volante a masturbarsi in auto, nella quale ci sono evidenti tracce di sangue. Giudice, inizialmente incriminato solo del delitto di Maria Rosa Paoli, confessa i suoi crimini dopo un breve periodo nell’OPG di Reggio Emilia, arrivando a condurre le autorità su alcuni dei luoghi di abbandono dei corpi. Più volte esprime parole di astio profondo nei confronti delle sue vittime:
“Tanto erano tutte bagasce di merda […] mi piaceva ucciderle […] volevo far pulizia”.
Il suo odio per loro non si è placato nemmeno dopo gli omicidi, afferma di aver eliminato delle donne “vecchie e brutte”, che gli scatenavano un irresistibile impulso violento, come la sua matrigna.
Dopo le prime confessioni, esprime il desiderio di morire o di essere condannato a morte, ma in realtà l’uomo appare quasi compiaciuto delle sue azioni, di aver “fatto pulizia” di donne indegne, come dice lui. È interessante notare che le donne scomparse non avevano scatenato il terrore nel Torinese durante gli anni di attività di Giudice; non c’è mai stata una serrata caccia all’uomo. Le prostitute erano semplicemente sparite.
Si può parlare in questo caso di vittime trasversali: quando per un seriale è impossibile colpire la persona che reputa responsabile delle sue sofferenze, altre persone che rievocano in lui le medesime sensazioni vengono colpite senza pietà. Questi crimini potrebbero essere definiti “femminicidi indiretti”, molto frequenti tra i serial killer: le prostitute, considerate vittime di serie b dalla società, vengono usate dal seriale per riversare furia verso le donne in generale. Solo la figura della madre viene ricordata con affetto da Giancarlo.
Giudice tuttavia ha frequentato attivamente prostitute tutta la vita, come in un perverso rapporto di dipendenza. Alcune delle sue vittime erano vecchie conoscenze dell’uomo, ad esempio Addolorata Benvenuto, la quarta vittima, uccisa il 18 marzo 1985, che Giancarlo chiamava “zia” e con cui aveva assunto stupefacenti in più occasioni. In altri casi, le donne erano appena conosciute, aggredite anche prima dell’inizio del rapporto sessuale.[6]
Durante la detenzione riprendono le perizie psichiatriche, che danno esiti contrastanti: due lo definiscono capace di intendere e di volere; per un’altra è invece parzialmente infermo di mente. Giancarlo sostiene di non sapere bene cosa lo spingesse al delitto, di aver agito senza premeditazione, ottenebrato dall’alcool. Queste affermazioni sono in netto contrasto con le sue frasi di odio e ferocia contro le vittime. Non finge nemmeno di provare rimorso per le sue azioni.
Giudice è un killer enigmatico, nonostante sulla carta sia il prototipo dell’assassino seriale. Contraddittorio, bugiardo e ambiguo, riesce a mettere in disaccordo anche grandi nomi della psichiatria forense. Passa dalle lunghe confessioni al silenzio ermetico, dalle frasi cariche di rabbia o di superbia (“ho ucciso nove donne, ho superato Jack lo Squartatore”) a quelle di disperazione. Comprenderlo è meno semplice di quanto sembri.
La condanna del marzo 1989 è all’ergastolo, in seguito ridotta a trent’anni con un successivo periodo in OPG [7], in quanto viene riconosciuto il vizio parziale di mente. Nel carcere di Ivrea aggredisce un secondino, giustificando l’atto come un tentativo di ottenere un trasferimento. [8] Dal 2008 viene rimesso in libertà. Ad oggi, ha cambiato identità e non è noto il suo luogo di residenza: è diventato un fantasma. La speranza è che il suo nome non torni a comparire tra le pagine della cronaca nera. [9]
Note
- [1] R. De Luca, Serial killer, Newton Compton, Roma 2021.
- [2] M. Monzani, E. Bertoli, Manuale di vittimologia, Libreria Universitaria edizioni, Padova 2016.
- [3] P. De Pasquali, Serial killer in Italia, Franco Angeli, Milano 2002.
- [4] https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DOSSIER/0/750635/index.html?part=dossier_dossier1-sezione_sezione2-h3_h32
- [5] A. Accorsi, M. Centini, I serial killer, Newton Compton, Roma 2008, pp. 178-186.
- [6] P. De Pasquali, Serial killer in Italia, Franco Angeli, Milano 2002.
- [7] Ospedale Psichiatrico Giudiziario, attualmente REMS, Residenza Esecuzione delle Misure di Sicurezza.
- [8] A. Accorsi, M. Centini, I serial killer, Newton Compton, Roma 2008, pp. 178-186.
- [9] https://www.ilgiornale.it/news/cronaca-nera/sono-tutte-prostitute-storia-criminale-giancarlo-giudice-2302706.html