False reliquie dalle catacombe di Roma: la storia dei corpi santi del Novarese
Giandujotto scettico n° 179 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo
È un luogo comune quello secondo cui il clou del traffico di reliquie nel Cristianesimo sia stato il Medioevo. In realtà, fu nella seconda metà del Cinquecento che la produzione di corpi santi da offrire alla venerazione dei fedeli cattolici raggiunse dimensioni quasi industriali. Proprio in Piemonte, e per esser più precisi nel Novarese, c’è un curioso affollamento di questo particolare tipo di reliquie; la ragione sta in una tormentata “spedizione di recupero” avvenuta nel 1602…
La riscoperta delle catacombe
Le guerre di religione, con la divisione dell’Europa fra cattolici (a sud) e protestanti (a nord) stavano per culminare con l’inizio della terribile guerra dei Trent’anni. Fin dagli esordi, sia pure con gradazioni diverse, i protestanti avevano bollato come idolatra il culto delle immagini, delle statue e l’uso delle reliquie e di altri oggetti ritenuti sacri. Dal canto suo, il concilio di Trento aveva rafforzato e promosso a livelli superiori la venerazione di santi e beati fra i cattolici e, soprattutto, il loro ruolo di intermediari fra uomo e Dio – un punto sul quale lo scontro con i protestanti fu frontale (anche ora, la separazione teologica delle due parti di Cristianesimo sulla questione rimane netta).
In quel clima di fervore devoto, a Roma avvenne un’importante scoperta archeologica. Il 31 maggio 1578, mentre la linea del concilio di Trento trionfava, alcuni cavatori che stavano estraendo della pozzolana (un materiale ghiaioso usato in edilizia) lungo la via Salaria nova, portarono alla luce un complesso di gallerie sotterranee fino ad allora sconosciuto. La scoperta suscitò una vasta eco. E, in epoca umanistica ormai matura, portò a un rinnovato interesse per le catacombe romane, alcune delle quali furono riaperte ed esplorate proprio in quegli anni.
Ciò che accadde si spiega con il clima generale al quale abbiamo accennato: i corpi lì sepolti furono considerati martiri da venerare, perché ritenuti – spesso a torto – quelli di cristiani uccisi per la loro fede durante il periodo delle persecuzioni pre-costantiniane (in realtà le catacombe furono usate per archi di tempo ben più estesi, e solo una piccolissima parte degli uomini e donne presenti in quegli antichi cimiteri era stata oggetto di martirio e di successiva venerazione da parte dei contemporanei).
Cominciò così una promozione sacrale delle ossa, inevitabilmente accompagnata dal relativo commercio. Gli scheletri appena trovati furono riesumati e traslati altrove. Alcuni furono mandati presso chiese situate nelle zone di confine con i territori europei passati al Protestantesimo: per la Chiesa cattolica era un modo per ribadire il culto delle reliquie e la corporeità del martirio – e, spesso, anche per sostituire le reliquie distrutte dai protestanti un po’ dappertutto.
Corpi santi e ingioiellati
In Germania e in Svizzera, terre miste fra cattolici e protestanti, ma anche in Austria, invece largamente cattolica, prese forma così il fenomeno dei Katakombenheilige: scheletri estratti da quelle catacombe, ricoperti di gioielli e di tessuti preziosi, esposti in pompa magna nelle chiese cattoliche europee. Per chi volesse rendersi conto quali vette kitsch raggiunse questa espressione dell’antropologia religiosa consigliamo il libro del fotografo Paul Koudounaris Heavenly Bodies: Cult Treasures & Spectacular Saints from the Catacombs (Thames and Hudson, 2013).
Con il tempo, nacque anche un vero, incredibile mestiere: quello del “cavatore di santi”, che erano estratti dalle catacombe e offerti a caro prezzo alle nobildonne dell’aristocrazia papalina romana che volevano avere accanto a sé una reliquia da esibire, o ai preti che desideravano arricchire la loro chiesa con il corpo di un martire. Roma, resasi conto di star perdendo il controllo sulla spiritualità di interi gruppi sociali e disponendo allora dei mezzi per controllarla, cercò di limitare questo fenomeno: gli accessi alle catacombe furono chiusi, e venne imposta una speciale patente di scavo detta licentiae effodiendi per potervi accedere alla ricerca di scheletri.
La Chiesa cattolica, a suo modo, cercò anche di stabilire delle regole, per discriminare tra corpi “normali” e quelli “santi”, identificati ad esempio dalla presenza di particolari diciture sulle tombe. Si tratta di linee guida che oggi appaiono scientificamente superate, ma che mostravano almeno uno sforzo filologico.
Più tardi, la sede papale creò un corpo di cavatori incaricati delle ricerche sotto la direzione di un Custode delle Sante Reliquie e dei Cimiteri. I corpi identificati come martiri erano poi riassemblati, molte volte senza particolare cura anatomica: è noto, ad esempio, il caso di un sant’Ovidio con due piedi sinistri. Il loro volto veniva a volte ricoperto con una maschera in cera e gli scheletri erano vestiti riccamente, in uno stupefacente trionfo barocco.
Da Momo con (fin troppo) fervore
L’affollamento di corpi santi nel Novarese si deve a un personaggio curioso: Giovan Battista Cavagna, detto Giobatta; nato nel paese di Momo nel 1555, era figlio di una modesta famiglia di proprietari di una taverna “dotata di giacigli”. La sua vicenda è stata ricostruita nei dettagli nel 2010 dallo storico Massimiliano Ghilardi per i Melanges de l’École Française de Rome (vol 122, n, 1, pp. 81-106).
Malgrado le origini non nobili, definito da una fonte “uomo di mezzane condizioni”, divenne francescano e si trasferì a Roma, dove entrò in rapporti con una delle figure più potenti della Controriforma, Filippo Neri, cosa che gli permise di stringere legami con la curia romana. Insieme a due preti novaresi, Giovan Battista Cattaneo e Flaminio Casella, e all’amicizia con un pittore importante Giovan Angelo Santini, detto il Toccafondo, ebbe il permesso di scavare tre catacombe importanti: San Callisto, San Lorenzo e San Sebastiano con l’aiuto del Toccafondo, che frequentava i sotterranei per studiarne pitture e rappresentazioni anche per riprodurle in opera a stampa. Il ruolo ambiguo di Santini, vero deus ex machina delle vicende che coinvolsero anche Cavagna è stato esplorato al meglio anche stavolta da Massimiliano Ghilardi, che ha aggiunto parecchie fonti in un suo saggio comparso sul numero di settembre 2013 del Giornale di storia.
Il risultato dell’azione congiunta di Cavagna e Santini fu clamoroso: a partire dal luglio del 1600, Cavagna portò nel Novarese 250 pezzi di cadaveri e trentatré corpi santi, da lui e dai suoi colleghi identificati con certezza come quelli di martiri con cui dare maggior gloria alle chiese della provincia, in primo luogo a quelle del suo paese. I vescovi di Novara, purché la cosa non fosse fatta senza particolare fasto, autorizzarono via via, nel corso del tempo, la distribuzione dei corpi santi in una serie di chiese della diocesi.
In realtà Cavagna aveva tentato già da prima di dare la caccia alle reliquie. Fra i primi esemplari spediti alla diocesi di Novara, un busto reliquiario della Vergine, dapprima conservato a Palazzo Mattei, a Roma, in via delle Botteghe Oscure, che conteneva “alquanto del latte e capelli suoi”.
Nel 1990 uno scrittore colto come Sebastiano Vassalli inserì la vicenda di Cavagna e dei suoi compagni di avventure in un suo romanzo storico, La chimera, ambientato nel Piemonte del Diciassettesimo secolo. La storia è naturalmente, a dir poco assai riletta: più che altro, Vassalli ne sottolineava gli aspetti truffaldini: Cavagna vi è descritto in larga misura come un ingenuo, il pittore e il vescovo novarese Carlo Bascapè, titolare della diocesi al tempo dell’attività di Cavagna come un orditore di trame (cosa quest’ultima che, sulla base della documentazione fornita da Ghilardi, pare priva di fondamento).
Parcheggiamo i nostri calessini vicino alla chiesa parrocchiale della Natività di Maria, edificata sull’antica chiesa romanica del castello detta “Santa Maria in Castrum Vetus” più volte ampliata e ristrutturata, infatti la facciata è degli inizi del XX secolo e il campanile è stato ricostruito negli anni trenta dello stesso secolo. Entriamo silenziosamente, nella chiesa non c’è nessuno e l’illuminazione è quasi totalmente assente, ciò non ci impedisce di ammirare una chiesa a tre navate con volte a crociera costolate e stucchi barocchi. Al suo interno sono conservati i Corpi Santi dei patroni San Zeno e Santa Tecla. La storia di queste due reliquie è abbastanza avventurosa. Infatti nel XVI secolo, tale Giovan Battista Cavagna o meglio Giobatta Cavagna, nato a Momo da una modesta famiglia di contadini, va in servizio a Roma nel palazzo di Gerolamo Mattei, Cardinale della Curia romana. Egli volle portare nel suo paese natio dei corpi di santi che avessero testimoniato con la loro vita la fede in Cristo. Con notevole spirito d’iniziativa, ottiene dai prefetti delle catacombe di prelevare alcuni Corpi Santi. Nel luglio del 1602, i corpi santi arrivano a Novara e vengono consegnati al Vescovo, il venerabile Bescapè. Due di questi corpi, quelli di Santa Tecla e Zeno dovevano essere successivamente traslati nella parrocchia di Momo per essere venerati. Il Cavagna, su ordine proveniente da Roma, viene arrestato a seguito di alcune voci calunniose fatte correre sul suo conto. Solo con l’intercessione del Vescovo di Novara che invia a Roma il suo vicario, il Cavagna viene rilasciato. I corpi di questi Santi rimasero a Novara molti anni e solo nel 1615, quando il Vescovo Bescapè si recò a Roma per la canonizzazione di San Carlo Borromeo, suo maestro, ottenne dal pontefice Paolo V, l’autorizzazione a distribuire i corpi dei martiri nelle varie chiese novaresi, purché non si organizzasse nessuna solenne cerimonia. Giunsero così il 15 novembre 1615 le reliquie di San Zeno e Santa Tecla a Momo.
Una spedizione tormentata
Quanto alle vere sorti di Cavagna, il fatto che potesse entrare con relativa libertà nelle catacombe non gli risparmiò un arresto: nel 1603, Clemente VIII aveva emanato un decreto contro la frequentazione libera dei cimiteri – ai quali naturalmente le catacombe erano state assimilate – e dunque fu arrestato, come provano le fonti, per disposizione dello stesso papa. Fu il Toccafondo, a quanto pare, con la mediazione di altri ecclesiastici a ottenerne la scarcerazione: era da considerarsi innocente, giacché la sua attività era assimilabile a quella di artista, di studioso e di persona colta.
Del resto, non è che Toccafondo non avesse avuto i suoi guai, e anche ben maggiori di quelli di Cavagna: a parte piazzare il presunto corpo del papa martire Aniceto nella cappella privata di un duca romano, il raffinatissimo Giovanni Angelo d’Altemps, ad un certo punto incorse nei rigori del carcere: il Tribunale apostolico lo accusò di furto dei corpi, da smerciare come reliquie. Non soltanto: lo stesso Clemente VIII, come documentato da Ghilardi, aveva accusato Toccafondo di aver fornito a Cavagna false reliquie da spedire nelle chiese del Novarese, sempre più ghiotte di oggetti da adorare.
Cavagna lasciò Roma per sempre nel 1614 e rientrò nel suo paese natale. Morì nel 1619, non senza essersi dedicato, ammirato da molti ma continuamente sospettato sino all’ultimo giorno della sua vita dal vescovo Bascapè, a promuovere la distribuzione dei suoi amati corpi santi, raccolti in un primo tempo presso la cattedrale di Novara.
Per il suo paese riuscì a inventarsi un regalo speciale – naturalmente di attendibilità storica prossima a zero: i corpi di san Zeno e di santa Tecla, per la cui assegnazione a Momo è conservato un rogito del notaio Moroni datato 15 novembre 1615.
Anche questi arrivi però, come accennato, fanno parte di una vicenda molto complessa: il vescovo Bascapè si diede da fare a lungo per capire se quelle ossa fossero davvero possibili reliquie cristiane e per comprenderne la vera origine. Per farlo, cercò di raggiungere in ogni modo il Toccafondo, ma – e la cosa è facile a capirsi, considerati gli inghippi di cui lui e Cavagna erano stati capaci – con poco frutto. Bascapè morì nel 1615, portando con sé dubbi e riserve.
Va detto che, in forme più o meno autorizzate da vescovi e preti, la caccia ai corpi santi, sia pure in forma via via più sporadica, durò molto a lungo, cioè sin quasi a metà Ottocento, cosa che prova quanto questa attività fosse prestigiosa, ma anche quanto parti della chiesa di Roma faticassero a liberarsene, a fronte del fatto che non esisteva nessuna prova che quei resti avessero a che fare con le prime vittime della fede cristiana.
Già in precedenza, però, anche fra il clero cattolico alcuni si erano distinti per razionalità e per la loro critica ai fondamenti stessi della pratica: fra tutti, il gesuita belga Daniel Papebroch (1628-1714) e il monaco francese Jean Mabillon (1632-1707).
Come per tanti altri elementi folkloristici ancora promossi dal culto cattolico, comunque, in parecchie località la venerazione dei falsi corpi santi prosegue ancor oggi.
Immagine di apertura: reliquiario di sant’Onorata nella chiesa di Santa Brigida a Gnadenberg (Germania). Foto di DALIBRI, da Wikimedia Commons, licenza CC BY-SA 4.0.