Discendiamo da una scimmia acquatica?
di Mattia Paparo
Parlare di evoluzione non è facile, perché non si possono raccontare concetti importantissimi in poche righe d’articolo. Eppure, è molto più semplice inventare o creare storie attorno alla nostra origine, perché, se vogliamo, per molte persone non è nemmeno semplice accettare che l’uomo possa essere frutto di eventi perlopiù casuali. Ed è per questo che le parole del grandissimo Stephen J. Gould dovrebbero accompagnare i dibattiti legati all’evoluzione umana:
“L’Homo sapiens è un minuscolo ramoscello su un ramo improbabile di un albero la cui forma dipende in gran parte dalla contingenza”.
Cosa significa tutto ciò? Che l’uomo, come qualsiasi animale, muta, cambia nel tempo ed è sottoposto a meccanismi quali la selezione naturale, la selezione sessuale, l’exaptation (e tantissimi altri). Solo che è difficile da digerire: è più facile credere che l’uomo sia al centro del mondo e che tutto ruoti intorno a lui. Pertanto, si crea la necessità di costruire ad hoc un’origine che sia diversa da quella di qualsiasi altro animale. Ci sono teorie che riguardano gli alieni provenienti da altri pianeti, altre, forse peggiori, che portano a pensare che l’evoluzione non esista e che non sia palpabile, oppure che non accettano un racconto oggettivo basato sui dati e le ricerche, perché “vogliono farci credere che sia andata così”.
Per esperienza personale, sui social non è difficile trovare commenti sotto articoli scientifici divulgativi che alludono alla non esistenza dell’Out of Africa e dell’origine africana del genere Homo. Tralasciando gli aspetti sociali, nel corso del tempo sono state lanciate tante teorie prive di fondamenti scientifici.
Tra queste c’è la teoria della scimmia acquatica. Venne formulata per la prima volta nel 1942 dal patologo tedesco Max Westenhöfer e ripresa poi (seppur in modo del tutto indipendente) dallo zoologo britannico Sir Alister Hardy.
La proposta era tanto semplice quanto affascinante: il progenitore dell’uomo sarebbe stato un primate che, per scappare dal caldo cocente della savana, si rifugiò in habitat acquatici, come quelli fluviali, per poi ritornare di nuovo nella savana come “Homo sapiens moderno”. Insomma, deve esserci stato un unico meccanismo casuale che ha permesso un adattamento rapido in un ambiente come quello acquatico, per poi perdere in tempi successivi questa caratteristica con la comparsa dell’uomo moderno.
Queste teorie sono tutt’ora alimentate. Per esempio, nonostante non ci sia alcuna prova fossile a sostegno di ciò, la scrittrice Elaine Morgan, fino al 2013, anno della sua morte, ha alimentato questa credenza. Così come Philip Tobias, un paleoantropologo che ha scritto diversi libri a supporto di questa particolare “teoria”.
In un modo o nell’altro, è interessante approfondire la storia e l’evoluzione di questa “teoria”. Gli studi in merito, tuttavia, sono tantissimi ed è meglio concentrarsi su alcuni di quelli pubblicati negli ultimi dieci anni.
Rae e Koppe, nel 2014, pubblicarono Sinuses and flotation: Does the Aquatic Ape Theory hold water? Questa ricerca aveva come soggetto i seni paranasali (quattro paia di cavità che si trovano all’interno del nostro cranio), che sono stati utilizzati proprio per testare la teoria della scimmia acquatica. Il risultato? Non siamo primati acquatici, o meglio, non lo sono stati nemmeno i nostri antenati. Tuttavia, ciò ha in qualche modo rafforzato la teoria della scimmia acquatica, in quanto indicava che la dispersione dell’uomo avvenne lungo le coste. Un fatto più che assodato da tantissime ricerche, ma alcuni autori, come Marc Verhaegen e Peter Rhys Evans, vollero testare comunque i risultati di Rae & Koppe.
Loro sostengono che gli habitat semi-acquatici siano stati comunque importanti. L’Homo del Pleistocene si disperse lungo le coste e trascorse molto tempo in acque basse (litorale). Insomma, la costa offriva la migliore via di dispersione da un continente all’altro. Per esempio, circa 84.000 anni fa, la nostra specie utilizzò un particolare “corridoio” collocato tra l’Etiopia e lo Yemen per raggiungere l’Eurasia, oltrepassando il Mar Rosso.
Sarebbero esistiti, quindi, due differenti corridoi che hanno permesso la diffusione della nostra specie. Il primo è quello “a nord”, quello “classico”, lussureggiante e ricco di corsi d’acqua, mentre il secondo corridoio sarebbe stato quello più ostico (ma non impossibile), in quanto caratterizzato da savane e praterie durante l’ultima interglaciale.
I dati paleoidrologici indicano che l’Arabia e il Levante hanno svolto un ruolo importante per la dispersione degli ominini, in quanto erano all’epoca zone caratterizzate da una grande quantità di bacini e risorse idriche, soprattutto grazie all’aumento delle precipitazioni. Questa situazione ha permesso, quindi, a un gran numero di specie (erbivori, carnivori, umani) di espandersi e di sopravvivere fuori dall’Africa attraverso questo “nuovo” corridoio.
L’attività umana è stata alimentata proprio dalla presenza di acqua, anche perché è emerso che le dispersioni fuori dall’Africa avvennero durante periodi nei quali aumentavano l’umidità e la quantità d’acqua dolce disponibile. Questo lo sappiamo grazie ai reperti litici rinvenuti in Arabia ed associati a paleolaghi e a depositi di “zone umide”. Altri dati indicano che i periodi umidi avrebbero facilitato l’espansione di popolazioni umane nell’Asia occidentale durante il Pleistocene superiore. Non è una novità, in quanto questo è un concetto più che assodato, ma fino ad ora non era mai stato creato un modello ‘paleoidrologico’ spaziale completo ad alta risoluzione per quanto riguarda l’Iran settentrionale.
In sostanza, è stata valutata la disponibilità d’acqua e la relativa influenza sulle dispersioni delle popolazioni umane verso est in Asia. Nel periodo identificato come MIS 5 (Marine Isotope Stage, uno stadio isotopico marino dell’ossigeno, tra 130.000 e 80.000 anni fa; il numero dispari indica un periodo relativamente caldo), c’erano opportunità per gli ominini di percorrere una rotta settentrionale attraverso le montagne Alborz e Kopet Dagh e il deserto Dasht-I Kavir, a causa della presenza di fonti di acqua dolce. Tra i periodi umidi, queste interconnessioni sarebbero diminuite, isolando le popolazioni dei monti Zagros e Alborz, dove gli ominini potrebbero aver continuato ad avere accesso all’acqua.
Inutile dire che, se fossi un sostenitore della teoria della “scimmia acquatica”, potrei affidarmi tranquillamente a questi dati per sostenerla. Sembra che l’uomo non possa fare a meno di stare vicino all’acqua, e questo è vero ed è innegabile, ma ciò non significa che l’uomo sia un animale acquatico.
La teoria ha cercato di collegare tratti anatomici umani ad adattamenti tipici di un ambiente acquatico, e la particolarità è che hanno trovato somiglianze (seppur forzate) con delfini e foche, animali prettamente acquatici. Questa è una delle idee originarie di Alister Hardy, che già nel 1960 iniziò a speculare su questo argomento.
Infatti, il primo carattere che collocava l’uomo nell’acqua era il grasso sottocutaneo che, a detta di Hardy, era simile a quello di mammiferi marini, e che proprio la riduzione di peli nell’uomo permise al corpo di essere più idrodinamico, come nel caso dei delfini. Ma il bello di una teoria pseudoscientifica è che essa non necessita di dati, e questo andò a favore proprio della teoria di Hardy, suggerendo che la specie acquatica che collegava gli ominini e le altre scimmie fosse vissuta in mare, un ambiente irraggiungibile dai paleontologi. Per questo ancora non abbiamo trovato nessuna traccia fossile.
Un altro elemento a “favore” di Hardy erano proprio le gambe tipiche del genere Homo, in quanto, secondo lui, sembravano ben adattate al nuoto. L’uomo, a detta sua, era simile a una lontra, in quanto, forse per convergenza evolutiva, anch’essa utilizzava utensili in pietra, ipotizzando che l’uomo avesse imparato da loro. Il problema è che, in tutta questa storia, gli ominini fossili non si adattavano alla sua teoria.
Per esempio, Australopithecus non possedeva un naso sporgente (altro carattere fondamentale per la “teoria”), e nessun altro ominino bipede possedeva delle gambe molto lunghe. Anzi, la forma conica del torace e l’ampio bacino rendevano le australopitecine meno “idrodinamiche”.
Tralasciando le inesattezze dal punto di vista anatomico, dagli anni ’80 in poi un altro cavallo di battaglia di questa teoria fu il consumo di pesce. Proprio in quegli anni sono stati trovati, in alcuni insediamenti neanderthaliani, resti di pesce e di molluschi, senza tracce di ami da pesca o di spago (magari associato a una rete).
Ma, tralasciando l’assenza di arnesi da pesca, che potrebbero essersi degradati nel corso del tempo, alcune comunità neanderthaliane erano caratterizzate da una dieta a base di Omega-3, prima attribuita solo alla nostra specie. Resti di cibi ‘marini’, infatti, sono stati trovati nella grotta di Figueira Brava, sulla costa atlantica del Portogallo. Si tratta di cozze, vongole, granchi, cefali e orate, datate tra i 100.000 e 90.000 anni fa, che rivoluzionano l’immagine che avevamo sui Neanderthal: non erano solo ‘cacciatori di selvaggina’ e abitavano lungo gli insediamenti costieri, proprio come il Sapiens.
Questa scoperta indica, inoltre, che la dieta del Neanderthal era quindi ricca di Omega-3 e di acidi grassi che favoriscono un buon sviluppo del cervello.
Questi Neanderthaliani vissero in prossimità di una costa rocciosa, dove raccolsero sistematicamente patelle, granchi e una moltitudine di pesci. Infatti, sono state ritrovate molte ossa e denti, per la maggior parte appartenenti ad anguille, murene e gronghi. Le anguille erano belle grosse, infatti raggiungevano anche i 30 cm di lunghezza.
Ma non mancano nemmeno i crostacei: sono stati rinvenuti resti appartenenti a vari generi (Bittium, Nucella, Tritia e molti altri). Sono stati utilizzati per creare ornamenti (molti gusci sono stati forati), ma venivano raccolti sistematicamente, e ciò porta alla conclusione che venissero utilizzati anche in ambito culinario.
Insomma, la raccolta sistematica di molluschi implica una grande conoscenza del mare e di tutti i fenomeni legati ad esso (come le maree) lungo il litorale portoghese. Ciò presuppone uno sviluppo cognitivo non di poco conto, oltre ad una conoscenza del mare tramandata da generazione in generazione.
Ed è proprio questo il punto centrale della teoria della scimmia acquatica: il consumo di pesce e di altri organismi marini avrebbe permesso lo sviluppo del cervello.
Ma ciò che potrebbe ancora di più avvalorare la tesi acquatica è un’altra particolare ricerca. Infatti, sono stati trovati resti di pesce cotto antichi di circa 780.000 anni, che potrebbero essere stati cucinati da Homo erectus o da altri ominini.
Oltre a retrodatare la pratica della cottura controllata, nel sito del Pleistocene medio di Gesher Benot Ya’aqov, in Israele, sono stati rinvenuti più di 40.000 resti di pesci d’acqua dolce, con la preferenza di due specie: Luciobarbus longiceps e Carasobarbus canis. I pesci pescati erano sostanzialmente “barbi giganti“, che potevano raggiungere i 2 metri di lunghezza.
Questo fa capire che anche la pratica della pesca è antica e che le tecniche di cattura per pesci di grandi dimensioni dovevano essere anch’esse abbastanza affinate.
Ma possiamo spingerci ancora oltre. Infatti, alcune prove di consumo di animali marini provengono dal bacino del lago Turkana, in Kenya, e hanno un’età superiore a 1,95 milioni di anni. In questo sito, gli ominini macellavano pesci di grandi dimensioni, tartarughe e coccodrilli, oltre a grandi mammiferi.
Per quanto sia interessante la questione sulla dieta, più che documentata, ci si dimentica (o si dimenticano loro) del concetto di evoluzione. Evoluzione è sinonimo di cambiamento, e non di miglioramento o di adattamento, e per provare a far luce su alcuni aspetti traballanti di questa teoria, chiedo aiuto a Piero Angela.
In una puntata di Superquark intitolata 13 miliardi di anni, spiegò con parole semplici il concetto di cambiamento ed evoluzione. Naturalmente, non vengono trattati tutti i meccanismi, ma solo il punto centrale, che è la mutazione: il cambiamento che avviene casualmente attraverso difetti di replicazione del DNA e non solo.
Per spiegare questo concetto nel modo migliore, Angela si servì di alcuni proverbi:
- Non tutte le ciambelle riescono con il buco. A volte si verificano dei difetti o degli errori nella replicazione del DNA, e l’individuo nasce con qualche caratteristica anomala. Se questa non è grave, può comunque sopravvivere e riprodursi.
- Non tutto il male viene per nuocere. Quella caratteristica anomala può diventare favorevole, magari molto favorevole in un ambiente diverso, perché consente, per esempio, di mimetizzarsi meglio oppure di accedere a un nuovo tipo di cibo.
- Da cosa nasce cosa. Questa continua modificazione delle caratteristiche permette la nascita e la diffusione di forme sempre diverse che, ramificandosi, diventeranno sempre più lontane dal ceppo di origine.
Questa è stata la grande forza della natura: offrire continuamente ai cambiamenti ambientali nuovi candidati alla vita (che casualmente possiedono quei difetti), selezionati poi dall’ambiente.
Oltre a questa fantastica spiegazione, e conoscendo anche solo i concetti base di biologia evolutiva, è alquanto improbabile che una mutazione casuale, che ha permesso un adattamento in un ambiente così diverso, sia avvenuta in tempi brevi. Così come è improbabile che questa caratteristica (a parte i peli, il naso e le gambe lunghe) sia scomparsa, rendendo l’uomo di nuovo capace di vivere fuori dall’acqua.
È inutile girarci attorno: paradossalmente, più scoperte si fanno, più possibilità ci sono che queste vengano utilizzate (almeno in parte) per giustificare la teoria della scimmia acquatica.
Se fossi un fan della teoria della scimmia acquatica, potrei tranquillamente usare questi dati per sostenerla. Ma esiste un popolo che, se guardato con occhi non scientifici, potrebbe davvero sembrare un esempio vivente di questa teoria.
I Bajau, detti “i nomadi del mare”, vivono nel Sud-est asiatico, nell’arcipelago di Sulu, nelle Filippine. La loro straordinaria capacità consiste nell’immergersi per decine di metri in profondità senza l’ausilio di attrezzature subacquee: basta una boccata d’aria per poter resistere sott’acqua per molto tempo, più di un comune essere umano.
Nel 2018, uno studio pubblicato su Cell ha identificato le basi genetiche di questa abilità. La selezione naturale ha favorito varianti genetiche nel gene PDE10A, legate a un aumento delle dimensioni della milza nei Bajau. Questo organo, durante l’apnea, rilascia una riserva di globuli rossi, migliorando l’ossigenazione. Inoltre, il gene BDKRB2, coinvolto nella vasodilatazione, ha subito una forte pressione selettiva.
Questa ricerca potrebbe essere usata per giustificare la teoria della scimmia acquatica. Eppure, c’è un’enorme differenza: qui abbiamo dati oggettivi. E i dati indicano che si tratta di un normale fenomeno adattativo.
Eppure, con occhi diversi, non quelli di uno scienziato o di una persona razionale, potremmo definire i Bajau i discendenti della scimmia acquatica.
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