Approfondimenti

È possibile sviluppare falsi ricordi?

di Giuliana Mazzoni*

Un nuovo studio scientifico, in cui si afferma che i falsi ricordi sono molto meno frequenti di quanto non si sia sostenuto fino ad ora, è stato pubblicato nel dicembre 2024. A questo lavoro, apparso nella rivista scientifica Applied Cognitive Psychology, è stato offerto un orecchio particolarmente attento da parte dei media, perché rappresenta un dato potenzialmente cruciale e dirimente nel dibattito scientifico molto animato (e ormai vecchio di 40 anni) sulla possibilità che gli individui sviluppino ricordi falsi di avvenimenti avvenuti nel corso della prima parte della loro vita, in particolare nel corso dei primi dieci anni di vita. 

Questo dibattito ha radici e ripercussioni sia di natura teorica, relativa al funzionamento della memoria umana, sia di natura applicata e pratica, in particolare rispetto alla accuratezza della testimonianza e alla sua affidabilità in ambito giudiziario. Ha anche importanti ripercussioni sul lavoro dei periti esperti di memoria in ambito processuale, quando si trovano di fronte a casi penali in cui un individuo adulto sostiene, dopo avere svolto mesi o anni di terapia, di essere stata vittima di abusi sessuali in età infantile, eventi che fino a quel momento non aveva ricordato. 

Nel loro studio Bernice Andrews and Chris Brewin hanno replicato una ricerca molto vecchia e altrettanto nota, quella di Luftus e Pickerell del 1995, in sui si era giunti alla conclusione che gli adulti potessero essere spinti a ricordare avvenimenti personali falsi che sarebbero potuti accadere durante la loro infanzia, ma che in realtà non si erano mai verificati. Un esempio è l’essersi perduti in un centro commerciale, proprio l’oggetto del suggerimento di Loftus & Pickrell. In altre parole, nel 1995 le due autrici avevano mostrato un fatto fondamentale: come attraverso dei suggerimenti le persone possano ricordare avvenimenti anche totalmente falsi. 

La procedura era in linea di massima la seguente: ai soggetti, adulti, veniva chiesto se si fossero mai persi in un centro commerciale da piccoli. A chi aveva risposto che non fosse mai accaduto si diceva in un secondo momento che i loro genitori, contattati dagli sperimentatori, avessero invece affermato che i soggetti si fossero persi in un centro commerciale da piccoli, fornendo dettagli dei fatti. Tutto falso. In seguito, ai soggetti era stato di nuovo chiesto se si fossero persi in un centro commerciale da piccoli, e una certa percentuale di loro aveva dato questa seconda volta una risposta positiva, con descrizioni anche relativamente dettagliate dell’avvenimento. 

Come si può capire, questo risultato aveva suscitato un enorme clamore perché all’epoca ancora non si sapeva ciò che oggi è scientificamente assodato, ossia che il ricordare è un processo ricostruttivo, e non riproduttivo. In altri termini, quando si ricorda non si va mai a ripescare un avvenimento nella sua interezza, ma si riattivano tracce sparse nella maggior parte delle aree cerebrali, che vengono integrate tra di loro per creare un avvenimento unico che abbia senso per l’individuo che ricorda. In questo “dar senso” a tracce sparse trovano spazio effetti anche dei suggerimenti e delle informazioni ricevute che non appartengono in realtà all’avvenimento originario. Lo studio di Loftus e Pickrell (1995) è stato quindi uno studio fondamentale da cui è nata molta ricerca successiva, che ha confermato come un ricordo non sia mai totalmente accurato, proprio perché soggetto a molteplici interferenze di varia origine.   

Lo studio del 2024 di Andrews e Brewins si contrappone ai risultati del lavoro di Loftus e Pickrell del 1995, e sostiene invece che la valutazione degli sperimentatori che dovevano decidere se un ricordo riportato dai soggetti fosse vero o falso è eccessiva, perché gli sperimentatori hanno sovrastimato la presenza di ricordi falsi o totalmente falsi. In particolare lo studio ha mostrato che se viene svolta una valutazione corretta dei ricordi riportati dai soggetti, praticamente nessuno dei ricordi è completamente falso, solo alcune parti semmai sono false o non corrette. In media, meno di due dettagli centrali dell’avvenimento falso venivano ricordati in modo esplicito dai soggetti (dettagli quindi falsi), e metà dei partecipanti avevano descritto esperienze che potenzialmente potevano essere vere, e che potevano essere distinte dalle esperienze false. È vero che questo ultimo gruppo ha anche ricordato più dettagli suggeriti (quindi dettagli falsi) ma, dicono gli autori, tendevano a ricordarli in modo diverso da quanto suggerito.

Come si diceva, questo lavoro recente ha ricevuto molta attenzione dai media, perché tramite questi risultati gli autori affermano con una certa decisione che i ricordi falsi in realtà non sono affatto frequenti, anzi. 

In realtà, i risultati a cui giungono non sono veramente nuovi. Chi conosce come funziona la memoria umana e tiene su questi argomenti una posizione neutra e il più possibile basata sui dati di una ricerca rigorosa, non può essere stupito da questi risultati e soprattutto sa che non negano l’esistenza dei ricordi falsi. Innanzitutto, è ben noto che non tutti gli individui siano ugualmente soggetti agli effetti di suggerimenti come quelli che sono stati utilizzati sia nello studio di Loftus e Pickrell del 1995, sia nella replica recente di Andrews e Brewin. 

In uno studio che ho condotto con la collaborazione di Amina Memon e pubblicato nel lontano 2003, avevamo mostrato che è circa il 25% della popolazione a sviluppare ricordi falsi, non di più. In quel lavoro, apparso sulla prestigiosa rivista Psychlogical Science, chiedevamo ai soggetti di immaginare di essere stati protagonisti in età di scuola elementare di un avvenimento che noi sperimentatrici eravamo totalmente certe non fosse mai accaduto. Si trattava di un’infermiera della scuola che aveva loro tagliato un piccolo pezzo di pelle dal dito mignolo per valutarne un’eventuale contaminazione nucleare dovuta all’esplosione della centrale di Cernobyl. In effetti, la centrale di Cernobyl era esplosa proprio quando i nostri soggetti erano in età di scuola elementare, ma non c’era mai stato un test per valutare l’eventuale contaminazione nucleare. Nonostante questo, dopo quel processo immaginativo circa un quarto dei soggetti “ricordava” l’avvenimento, che veniva descritto con molti dettagli (esempio di alcuni tra i molti dettagli: era una infermiera bionda, ho avuto meno paura del previsto, la mamma mi ha detto che ero stato bravo e mi ha regalato una caramella….). Ripeto, non tutti i soggetti però avevano questi ricordi. Alcuni rimanevano dell’opinione che niente fosse accaduto, altri raccontavano poco.

Per capire perché i risultati di Andrews e Brewin non stupiscono gli studiosi di memoria, occorre fare anche riferimento proprio a questi ultimi risultati. Com’è possibile che un quarto delle persone ricordassero vari dettagli precisi e molto chiari di un avvenimento che non era mai accaduto? La risposta fa riferimento ad una serie di meccanismi di memoria su cui non sarebbe agevole soffermarsi in questa sede, ma è di base molto semplice. Questi falsi ricordi prodotti dal suggerimento proposto sono possibili proprio perché il ricordare è un processo ricostruttivo, di riattivazione di tracce di memorie varie e di conoscenze già tutte presenti nella mente di chi ricorda.  

Per cui in Mazzoni e Memon (2003) il ricordo falso così ricco di dettagli consisteva nella riattivazione di vari ricordi veri, di avvenimenti diversi tra loro, relativi a piccoli interventi svolti da un’infermiera. Questi spezzoni di ricordi venivano poi integrati con il tema principale (il taglio del pezzettino di pelle nell’arco di tempo specifico indicato da noi sperimentatori) e uniti tra di loro. Il tutto veniva anche integrato poi con le conoscenze che si attivavano sulla modalità in cui si svolgono le procedure mediche, sulle stanze in cui queste vengono svolte, ecc ecc. Il risultato di questa serie di processi di attivazione ed integrazione era un ricordo di per sé falso di un avvenimento che in realtà non era mai accaduto in quanto tale. Ma che conteneva tante parti “vere”.  

Andrews e Brewin, che proclamano di avere scoperto che i ricordi falsi non esistono, hanno in realtà trovato fondamentalmente la stessa cosa che era stata trovata da Mazzoni & Memon nel 2003: se uno va a vagliare i contenuti vari che vengono inseriti in un ricordo falso, trova tanti elementi veri, ed elementi che fanno parte di avvenimenti della stessa categoria dell’avvenimento falso suggerito. Ma il fatto che ci siano elementi veri non dimostra che il ricordare, per esempio, che uno si è perso in un centro commerciale, quando in realtà non si era mai perso, sia un ricordo vero. A differenza di quelli di Loftus & Pickrell, in questo discorso i risultati dello studio Mazzoni & Memon sono dirimenti, perché nel primo caso si è suggerito alle persone un evento che potrebbe essere accaduto davvero ed essere riattivato, nel secondo caso si è usato un suggerimento che si sapeva con certezza essere falso.

Occorre quindi ritenere che certe procedure, che includono non solo interrogatori e interviste investigative suggestive, ma anche forme di psicoterapia che usano o ipnosi o immaginazione guidata o forme di EMDR finalizzate al recupero della memoria, possano facilmente aiutare una persona a creare ricordi falsi di avvenimenti mai accaduti. Senza interventi di questo tipo il ricordo, sia pure mai accurato al 100%, può essere ritenuto di massima valido, ma se si inseriscono interventi del genere (e non sto a parlare qui del fenomeno dei ricordi falsi spontanei che vengono creati durante l’infanzia grazie alle conversazioni con adulti o coetanei, o a film, o a sogni, o a fantasie come l’essere inseguiti da dinosauri, essere andati in ospedale con una gamba rotta, ecc) si rischia di modificare il contenuto della memoria in modo talvolta anche irreversibile. La memoria è un sistema potente ma anche vulnerabile, proprio in virtù della sua modalità di funzionamento.

Immagine di Tumisu da Pixabay 

* Giuliana Mazzoni è professore ordinario di Psicologia presso l’Università di Roma La Sapienza e Professor Emeritus in Neuroscienze/Psicologia presso la University of Hull, UK