Giandujotto scettico

Giusto Falqui e il processo del Libro del Comando

Giandujotto scettico n°182 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo

Se l’era fatto anche scrivere sul biglietto da visita: “Prof. Falqui, soggetto ipnotico”. Giusto Falqui, originario di Alessandria, sbarcava il lunario così: si presentava agli studiosi di ipnotismo e si faceva “suggestionare”, esibendosi in una serie di esperimenti in cambio di qualche lira; ogni tanto riusciva a portare le sue performances anche nei teatri. Ma fu proprio questa professione a causargli qualche grattacapo, nel 1891: in molti erano convinti che, tramite i suoi poteri, avesse indotto quattro giovani a commettere una rapina a mano armata.

Un malato eccezionale

Giusto Falqui doveva essere nato intorno al 1856 ad Alessandria, da madre torinese e da  padre cagliaritano; aveva un fratello morto suicida, e un altro che lavorava a Ghilarza (Oristano) come impiegato di commercio. Raccontava di essere cresciuto in Sardegna con una “irascibile matrigna” che gli negava il cibo, sottoposto a maltrattamenti cagionati in parte dalla sua irrequietezza. Sulla sua salute, diceva di aver contratto in Sardegna febbri malariche, e di essere per poco scampato a un avvelenamento da stricnina. 

Non sappiamo molto altro sulla sua vita, se non che a un certo punto cominciò a girare l’Italia presentandosi come “soggetto ipnotico”: erano gli anni dei “grand tours” piemontesi dell’illusionista Jean-Lambert Pickman, che si esibiva nei teatri come lettore della mente. Falqui cercava di seguire le sue orme, presentandosi come uno strano ibrido tra un soggetto malato e bisognoso di cure e un uomo dotato di poteri straordinari.

Egli coglieva il momento in cui in una città era ancora a rumore per gli esperimenti del Pickmann, entrava in un caffè o lungo la via, fissava una lampada elettrica, cadeva in catalessi, si faceva accompagnare all’Ospedale, dove trovava sempre medici che si affrettavano a praticare su di lui esperimenti di ipnotismo, che riuscivano sempre meravigliosamente e coi fenomeni più spettacolosi, che erano poi propalati dai giornali. (Augusto Tamburini, Ulteriori studi sulla causa del Libro del Comando, in Rivista Sperimentale di Freniatria, 1892).

Altre volte, Falqui metteva annunci sui giornali dicendosi disponibile a farsi esaminare, oppure riusciva a rimediare un ingaggio in qualche teatro. Fu sottoposto a esperimenti da personaggi del calibro di Cesare Lombroso ed Enrico Morselli, direttore del Regio Manicomio di Torino, che riconobbero la sua “suggestionabilità”. Augusto Tamburini, direttore del manicomio di Reggio Emilia, lo bollò invece come un “furbo matricolato”.

Falqui, basta la parola

Per capire quale fosse il repertorio di “esperimenti” con cui Falqui affascinava gli studiosi, possiamo leggere il resoconto di un’esibizione che si svolse a Cagliari nel maggio 1891, pochi mesi prima del processo che lo coinvolse. Fu ipnotizzato dal professor Fenoglio. Il periodico Vita sarda del 24 maggio 1891 lo descriveva come un

isterico, che da quattro anni fa il giro delle università italiane e dei club, esponendo ovunque la propria infermità, a profitto della scienza, a diletto dei profani ed a soddisfacimento del proprio interesse. […] È piuttosto piccolo, ossuto, dagli orecchi molto sporgenti, dalla pelle di cartapecora. 

Durante la seduta, fu “addormentato” dal professor Fenoglio, che constatò in lui tutti e tre gli stadi dell’ipnotismo descritti da Charcot, che allora, al riguardo, dettava legge. Gli esperimenti vertevano sulla sua capacità anestetica e di rimanere immobile, oltre che sulla sua disponibilità a comportarsi esattamente come volevano gli esaminatori. Racconta Vita sarda:

Nel primo stadio, o sia nel letargico, si mise in evidenza la straordinaria sensibilità dei muscoli. Poscia si passò all’anestesia, cioè all’insensibilità assoluta, durante la quale il soggetto fu toccato con liquidi scottanti, senza che egli si movesse.

Nel secondo stadio, o sia nel catalettico, si ebbero quattro serie di fenomeni, cioè le flessioni ceree, le suggestioni di posa, l’estasi muscolare e la rigidità cadaverica. Il professor Fenoglio pose il soggetto nelle più difficili posizioni, e questo vi si mantenne costantemente. Indi gli fece assumere l’espressione dei sentimenti più disparati. La fisionomia dell’ipnotizzato passò dal pianto al riso, alla disperazione, al dubbio, alla preghiera, alla minaccia. […] 

Risvegliatolo, e fattolo riposare per alcuni minuti, si passò in seguito al terzo stadio, o sia al sonnambolico. In questo stadio si ebbero le suggestioni olfattive, le suggestioni gustatorie, le suggestioni di personalità ed in ultimo l’anestesia permanente. Fu presentato all’ipnotizzato una boccetta di sostanze amare, assicurandolo della loro dolcezza, ed egli le gustò con piacere, mentre mostrò disgusto per quelle dolci, che gli erano state offerte come amare. Lo stesso venne fatto per gli odori. Il professore disse che faceva un caldo soffocante, ed egli si diede a sbarazzarsi del frak, del corpetto, di tutto, colla massima fretta, tergendosi il sudore; gli disse poi che faceva un freddo da gelare, ed immediatamente il soggetto si rivestì, si rimboccò il bavero, si raggomitolò battendo i denti […] In seguito gli fu assicurato esser egli lo Sbarbaro. L’ipnotizzato sorrise, si animò, e invitato a fare un discorso sulla libertà, prese a declamare con tono enfatico, magniloquente, alcune frasi sull’argomento. […]

Agli occhi di oggi, questi test non suonano particolarmente “paranormali”: Probabilmente Falqui aveva una certa resistenza al dolore, e per il resto era molto bravo ad assecondare il suo pubblico. Solo in un caso si potrebbe ipotizzare l’impiego di un vero e proprio trucco di illusionismo:

Gli si presentarono in ultimo alcune buste da lettera, accertandolo esservi dentro una di esse la fotografia di uno dei presenti, ed ordinandogli di cercare, appena desto, quella busa ed indicarla al professore. Dopo esser stato per cinque minuti affatto inerte, l’ipnotizzato si risvegliò, e suo primo pensiero fu di correre, divincolandosi da qualcuno che cercava di trattenerlo, a cercare le buste, fra le quali riuscì a scoprire quella che aveva contenuto il ritratto, precedentemente tolto dal professore.

Non sapendo altro sui dettagli dell’esperimento, comunque, è difficile ipotizzare la tecnica impiegata.

Il libro del desiderio

Giusto Falqui arrivò all’attenzione delle cronache di tutta Italia per un caso singolare, un crimine perpetrato nel novembre 1891 a Sassuolo, in provincia di Modena. Dobbiamo a Francesco Paolella, membro del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia e redattore della Rivista Sperimentale di Freniatria, un’interessante ricostruzione della vicenda, pubblicata nel 2018 sulla rivista Clionet. Per un senso del tempo e dei luoghi.

All’origine di tutto c’era un libro magico, e le superstizioni che lo accompagnavano. A Sassuolo si raccontava che don Ortensio Giacobazzi, un sacerdote vissuto in quella zona alcune generazioni prima, avesse venduto l’anima al diavolo per acquisire il Libro del Comando, una specie di grimorio che lo rendeva in grado di compiere miracoli, evocare demoni, trovare tesori e coniare monete false. Nel 1891 Giuseppe Franchini, un contadino del paesino di Varana che, oltre a coltivare la sua terra, si dedicava al commercio di libri antichi, iniziò a vantarsi di possedere il volume, che diceva di aver trovato nell’antica abitazione del parroco.

Le sue dichiarazioni attirarono l’attenzione di alcune persone, tra cui Carlo Cassani, un giovane di famiglia benestante, interessato alla fisica, alla meccanica, ma soprattutto alla magia. Aveva studiato fino alla quinta ginnasio, e dunque nel suo gruppo era considerato come uno dei più colti. Spinto dal nonno verso l’occultismo fin da bambino, aveva cercato tesori tramite tecniche esoteriche, fallendo sempre, anche a causa – diceva – di apparizioni spaventose che interrompevano le sue ricerche. Si era quindi convinto che il Libro del Comando avrebbe risolto ogni suo problema. Ma Franchini non voleva darglielo. 

Alle richieste di mostrarlo, Franchini gli avrebbe invece fatto vedere una pergamena con scritte in ebraico, da usarsi come talismano. In questo desiderio, Cassani non era solo: intorno a lui aveva radunato una piccola banda di persone appassionate di magia, tra cui i suoi cugini Angelo e Gioachino, e due amici di vecchia data, Vittorio Valdastri e Costante Poggioli. Erano tutti giovani, tra i 20 e i 30 anni, e tutti convinti che il Libro del Comando avrebbe risolto ogni loro problema.

Un crimine non troppo efferato

Inizialmente, i cinque giovani si limitarono a parlarne tra loro, ma le cose cambiarono quando a Sassuolo arrivò Giusto Falqui, il nostro soggetto ipnotico. Cassani gli  propose di farsi magnetizzare: sotto ipnosi, Falqui avrebbe potuto dare maggiori indicazioni sul Libro del Comando. L’idea era che una persona sottoposta a ipnosi avrebbe potuto accedere a informazioni occulte, a cui le persone non potevano arrivare negli stati normali di coscienza. D’altra parte, quello era il periodo di maggior popolarità delle sonnambule, donne che sotto ipnosi venivano interrogate per formulare diagnosi mediche, trovare oggetti perduti e divinare il futuro.

Cassani, dunque, usò la tecnica dei passi magnetici per ipnotizzare Falqui, e lo interrogò sul Libro del Comando. Falqui, come c’era da aspettarsi, assecondò in tutto e per tutto ogni speranza degli interroganti. Il Libro del Comando? Certo, ce l’aveva proprio Franchini. Che aspetto aveva? Quello di una pergamena scritta in italiano e latino. Dov’era nascosto? Nel solaio della casa del suo attuale proprietario. Occorreva sottrarglielo con l’inganno o con la forza? Certo, altrimenti avrebbe perso i suoi poteri. Insomma, con quelle sedute di ipnosi Cassani e i suoi compagni si convinsero che occorreva passare all’azione. 

La sera del 2 novembre 1891 i cinque, mascherati e con le armi in pugno, bussarono alla porta di Franchini chiedendo la consegna del Libro del Comando. Due rimasero a fare da palo, mentre altri tre si misero a frugare il solaio del malcapitato e a interrogarlo. Franchini tergiversò e provò a convincere i giovani che non aveva nessun libro miracoloso. Alla fine riuscì a scappare buttandosi da una finestra e gridando “Al ladro! Al ladro!” I giovani fuggirono, ma furono ben presto arrestati dai carabinieri.

A processo

Il processo di primo grado fu celebrato presso la pretura di Pavullo sul Frignano il 15 e il 16 gennaio 1892. La difesa puntò tutto sulle perizie di parte: Attilio Cionini, psichiatra di Modena, spiegò ai giudici che i cinque andavano assolti per infermità di mente, perché in loro albergava una “paranoia primitiva, degenerativa, sistematizzata, allucinatoria, demonologica a cinque”. Le loro menti erano  dominate dalla superstizione e da un’esaltazione tale da impedirgli di discernere e giudicare i propri atti. Erano anacronistici rappresentanti di un Medioevo che riemergeva dalle profondità delle loro menti, portatori di “fossili del pensiero” che erano riemersi quando Giusto Falqui li aveva suggestionati

Proprio in quegli anni, d’altra parte, era vivissimo il dibattito sull’ipnosi in campo giudiziario e su quanto la suggestione potesse incidere nell’indurre al crimine. Alle perizie di Cionini si aggiunsero in seguito quelle di Augusto Tamburini, direttore del manicomio San Lazzaro di Reggio Emilia.

Come avveniva spesso all’epoca, gli psichiatri frugarono nella vita e nella famiglia dei giovani per trovare tracce di degenerazione e tare ereditarie che potessero giustificare un vizio di mente e la suggestionabilità. Carlo Cassani era intelligente, ma dominato da idee anormali, fino al delirio. Suo cugino, Angelo Cassani, era affetto da etilismo e rovinato da uno sfrenato onanismo. Gioachino, il fratello di Angelo, credeva nei demoni e nella stregoneria e una volta aveva persino cercato di vendere l’anima al diavolo. Vittorio Valdastri aveva un padre alcoolista, mentre la madre e un fratello soffrivano di accessi epilettici — una cosa che, all’epoca, veniva vista come un segnale di tare ereditarie in famiglia. Anche lui cercava tesori usando pratiche magiche o la radiestesia. Infine c’era Costante Poggioli, per Cionini il più grave di tutti: aveva un cugino mattoide, un fratello affetto da idiotismo, la madre soffriva di convulsioni e lui aveva abusato a lungo di vino e della “Venere solitaria” (sic). In più, soffriva di allucinazioni:

Havvi un viottolo presso casa sua, dove vede frequentemente degli spettri; ora è una donna alta, che si rimpicciolisce, mentre la chioma di lei cresce a dismisura, e l’accompagna del pari fino ad un crocevia, dove si dilegua ad un tratto; altra volta vede un cavallo sellato montato da un uomo che l’accompagna come sopra; altra volta due, che gli si mettono ai fianchi, poi si trasformano in due vitelli e poi in due uomini giganteschi. (Attilio Cionini, La causa del Libro del Comando. Studio psichiatrico-legale, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 1892)

Insomma, si trattava di uomini malati, su cui le parole di Falqui avevano avuto un effetto devastante. In maniera inattesa, il giudice accolse quella linea di difesa e assolse gli imputati. 

Meno bene andò ai cinque quattro mesi dopo: il 18 maggio, la Corte di Appello di Modena rifiutò di ammettere le perizie degli psichiatri, compresa quella di Tamburini, che lo studioso aveva prodotto dopo il primo processo e che dovette limitarsi a presentare sulla Rivista sperimentale di Freniatria, di cui era direttore. Non poté quindi sostenere di fronte al giudice la conclusione a cui era arrivato, e cioè che il vero delinquente e responsabile della vicenda fosse Giusto Falqui. Su queste basi, la Corte di Appello condannò tutti e cinque gli imputati a 75 giorni di carcere per le minacce e il tentato furto. 

Fine di un innocuo impostore

Che ne fu delle persone coinvolte in questa vicenda? Falqui non fu imputato come mandante del furto; d’altra parte, all’epoca del processo, se ne era già andato via da Sassuolo.

Quarant’anni dopo il processo del Libro del Comando, il medico legale Boldrino Boldrini rilesse le carte processuali, e nel 1938 pubblicò sulla Rivista Sperimentale di Freniatria un articolo intitolato La causa del “Libro del Comando” riesaminata sotto il rispetto medico-legale. Boldrini criticò la diagnosi di paranoia e l’uso del concetto di “anacronismo” di Tamburini: per lui, le credenze dei giovani erano un fenomeno culturale, non sintomo di alienazione mentale

Boldrini condusse anche una piccola indagine per sapere che fine avevano fatto i cinque giovani dopo il breve periodo trascorso in prigione. Quasi tutti avevano condotto una vita normale e non avevano più avuto guai con la giustizia. Solo Carlo Cassani ebbe qualche problema in più, coinvolto in un caso di ratto di minorenne: dopo l’assoluzione nel processo di primo grado aveva continuato a esercitare i suoi poteri di magnetizzatore, e lo aveva fatto su una giovane ragazza di cui si era innamorato e con cui era fuggito. La ragazza, in stato di sonnambulismo, gli aveva assicurato l’assoluzione nel processo d’appello. Come sappiamo, le cose non andarono così, e il matrimonio riparatore che aveva promesso ai genitori della ragazza non poté essere celebrato. Cassani rimediò quindi una denuncia per ratto di minorenne e fu condannato ad altri sei mesi di prigione. In seguito, a quanto pare, abbandonò le pratiche occultistiche e visse a lungo, e ricco. 

Meno bene andò al nostro soggetto ipnotico, che per un po’ continuò a esercitare la sua strana professione, presentandosi come un misto tra un malato e un uomo di spettacolo. Questa ambiguità è evidente anche dai commenti di alcuni giornali, che presentando la sua figura affermavano:

Peccato che il Falqui sia costretto a dare spettacolo per mestiere di ciò che dovrebbe essere solamente oggetto di studii e di investigazioni scientifiche! (La Vedetta, 5 agosto 1893)

Morì nel 1906, in un giardino pubblico di Vercelli, suicidandosi con un bicchiere di cianuro di potassio. In quell’occasione, la Gazzetta del Popolo lo descrisse come “un individuo sparuto, macilento, noto come soggetto ipnotico, che sbarcava male il lunario prestandosi ad esperimenti”. La Stampa del 6 giugno 1906 ipotizzò che l’uomo fosse stato spinto a quel gesto dalla miseria: in tasca non aveva il becco di un quattrino.

E il Libro del Comando? Beh, durante il processo fu svelata la natura del libro che Franchini aveva spacciato, o forse aveva creduto, come il Libro del Comando. Si trattava di un volume in due fascicoli risalente alla fine del Settecento e stampato in Germania. Un testo esoterico falsamente attribuito ai mitici Rosa Croce, con immagini cabalistiche di difficile interpretazione. Uno dei tanti che sfruttavano la fama dell’ordine – probabilmente mai esistito – per presentare visioni filosofiche, spirituali, o forse per rivendicare l’appartenenza a un’antica tradizione esoterica a meri fini commerciali. Che qualcuno potesse pensare di usarlo per scoprire tesori nascosti in un paesino della Pianura padana a oltre un secolo di distanza, è una cosa che lascia davvero stupiti.

Foto di Ri Butov da Pixabay